Il 5 e 6 giugno del 2004 il Seami ha vissuto il ritiro  a Barbiana nel Mugello, nell'ambiente dell'esperienza spirituale e umana di un sacerdote straordinario: don Lorenzo Milani, priore di Barbiana. Alle pendici del Monte Giovi tra il 1954 e il 1967  diede vita alla "Scuola di Barbiana" per offrire ai ragazzi di quelle terre, abbandonati a se stessi, la possibilità di prendere in mano il loro destino diventando uomini responsabili, impegnati e protagonisti. Dare la parola ai poveri era lo scopo che voleva perseguire attraverso l'insegnamento, e con la sua scuola ha costruito un modello educativo da offrire a tutti, specialmente ai poveri, basato sulla capacità di leggere gli eventi e di comprenderli.

Anche il Seami ha voluto prendere una "lezione alla scuola di Barbiana", conoscendo il "maestro" don Milani e approfondendo i messaggi che ci ha lasciato che, dopo oltre 50 anni, sono ancora di grande attualità e costituiscono un richiamo a non rinchiudersi nella propria realtà "protetta", ignorando tutto ciò che i media e i social non dicono o strumentalizzano: un'esortazione ad essere protagonisti attenti a chi è vittima delle ingiustizie del mondo.

Presso la sua umile tomba abbiamo chiesto a don Milani di guidarci nel nostro cammino per metterci come lui "dalla parte degli ultimi".

Nell'inserto sono riportati due dei testi oggetto di riflessione da parte dei partecipanti al ritiro: il primo "Dalla parte degli ultimi"  riguarda l'amore di don Milani per i più poveri, il secondo "Il maestro"  descrive come interpretò il ruolo di educatore.

DALLA PARTE DEGLI ULTIMI

I Poveri, secondo don Milani, hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a riscattarsi, ad avere la giusta coscienza e dignità. Fin dall’inizio la preoccupazione pastorale di don Lorenzo furono i <<lontani>>, le pecorelle smarrite, per cui scopo della sua missione fu da subito quello di abbattere i muri che si sovrapponevano tra Dio e i non credenti, tra il Vangelo e i <<lontani>>.

Uno scopo che esigeva un duplice dovere. Il dovere innanzitutto, della coerenza: don Lorenzo sosteneva che il Vangelo, per predicarlo agli altri, bisognava che prima fosse vissuto dalla Chiesa e dai suoi sacerdoti. Per questo fu rigoroso e spietato con se stesso e nei confronti di quei comportamenti della Chiesa e dei suoi confratelli che giudicava non conformi ai dettami evangelici. In secondo luogo don Lorenzo avvertì il dovere missionario di andare là dove pascolavano le pecorelle smarrite e di accostarsi alle loro anime perse con il cuore del padre e non con la presunzione del prete, per afferrare le ragioni della loro lontananza e, se possibile, rimuoverle. Don Milani divenne così povero tra i poveri, operaio tra gli operai, vedovo tra le vedove, orfano tra gli orfani, <<comunista>> tra i comunisti.

Il classico milaniano era l’applicazione in chiave sociale delle Beatitudini evangeliche. <<Chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta per lui. Finchè non aveva capito, gli altri non andavano avanti>>, si legge in Lettera a una professoressa.

L’ultimo, nel senso letterale del termine, a Barbiana era il primo e viceversa.

In particolare nella scuola di don Milani si analizzava e si lottava contro le molteplici situazioni di sfruttamento e di miseria del popolo. Soprattutto in Esperienze pastorali sono evidenziati i problemi del sottosviluppo sociale – dall’analfabetismo al massacrante lavoro nelle imprese tessili, dagli alloggi dove abitavano più famiglie alla miseria dei montanari che emigravano verso il piano in cerca di destini migliori – che costituiscono l’altra faccia del cosiddetto boom economico della seconda metà degli anni Cinquanta. Don Milani coglie con passione e acutezza intellettuale il duplice meccanismo dello sviluppo economico dell’Italia di quegli anni. Da un lato, i costi umani altissimi prodotti dall’industrialismo in termini di sfruttamento spesso indiscriminato dalla forza-lavoro e, dall’altro, l’uso dei miti della modernità e del benessere come copertura ideologica di quel tipo di sviluppo economico. L’operaio che lavorava nelle aziende tessili o il montanaro di Barbiana che lasciava il podere perché attratto dall’industrialismo che si espande in pianura sono figure, agli occhi di don Milani, doppiamente sfruttate. Sfruttate in fabbrica (bassi salari, scarsa sicurezza, licenziamento facile, condizioni di lavoro molto pesanti) e fuori dalla fabbrica, dove regna egemone un modello culturale che attraverso la televisione, il cinema, lo sport e le mode diffondeva valori considerati alienanti da don Lorenzo.

Nella sua prima esperienza pastorale a San Donato don Milani affrontò i problemi sociali degli operai, dal lavoro nero ai licenziamenti selvaggi, poi a Barbiana l’interesse si spostò sulle condizioni di vita dei montanari: dagli industriali e dal loro capitalismo senza regole l’attenzione critica  del priore si spostò soprattutto verso lo Stato assente e colpevole.

Don Milani coglie l’estraneità dei montanari dallo Stato, che appare loro solo nella funzione espressiva: la riscossione delle tasse e le contravvenzioni. A Barbiana mancavano i servizi essenziali: acqua, luce e posta. Chi poteva cercava di emigrare altrove e il priore incoraggiò l’esodo dei montanari verso le città, attratti non solo dal miraggio di migliori condizioni economiche ma soprattutto da un’urgenza interiore di parità sociale. Non era la miseria il tarlo principale che rodeva il montanaro ma il suo essere un emarginato sociale.

Don Milani aprì una scuola nella convinzione che fosse la parola e il muro che impedisce ai poveri di essere cittadini sovrani e di comprendere il messaggio evangelico. <<Ogni parola che non conosci è una fregatura in più, è una pedata in più che avrai nella vita>>, spiegava il priore.

La scuola che don Milani aprì a Barbiana si fondava sul valore della parola, che nella sua ottica assolveva a una duplice funzione. La prima riguardava l’identità dell’uomo, che è definita dal possesso della parola, cioè dalla capacità di esprimere il proprio pensiero e di capire quello altrui. <<Da bestie si può diventare santi. Ma da bestie a santi d’un passo solo non si può diventare>>.Come ha sottolineato il cardinale artini, don Milani ha saputo cogliere la parola nella sua pregnanza biblica, nella sua potenza creativa: <<L’uomo è ciò che è per la parola>>. L’affermazione della propria identità attraverso la conoscenza della parola suscita un processo di eguaglianza: <<Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. (…). Tentiamo di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere>>.

La seconda funzione della parola è invece quella di permettere all’uomo di essere solidale con gli altri uomini. La parola diventa così il segno-sacramento del mistero cristiano del Verbo che in Gesù Cristo assume le sembianze umane per salvare, attraverso il sacrificio della morte in croce, l’umanità intera. E’ questa concretezza salvifica della Parola divina che sta al fondo dell’idea milaniana della cultura come solidarietà, come impegno per gli altri, come avvento in terra del Regno di Dio e nel contempo spiega l’avversione del priore di Barbiana per la cultura borghese <<il tornaconto individuale>> e per le parole vacue che producono chiacchiere e non fatti e che non danno luogo a un vero dialogo ma solo alla babele delle lingue, immenso e moderno supermarket della comunicazione dove l’uomo è afflitto dalla solitudine e oppresso dalle parole che non salvano. In questa prospettiva la scuola milaniana che insegna l’uso e padronanza della parola assume anche una forte valenza evangelizzatrice.

E’ stato insieme maestro e allievo. Ha insegnato e appreso nello stesso momento. La sua è la pedagogia dell’aderenza ai fatti, si è preso cura del malessere e del dolore dei suoi parrocchiani e ha cercato d’inventarsi delle risposte sul campo. Don Lorenzo ai suoi ragazzi ha insegnato ad avere rispetto di loro stessi, a credere nelle loro possibilità e quindi a non rassegnarsi al destino. Sì, c’è la Provvidenza ma in Lorenzo è forte anche l’idea che l’uomo è autore delle proprie scelte. In questo si discostò dal pensiero dominante nella Chiesa.

 

IL MAESTRO

Alla base di ogni posizione di don Milani c’è una scelta di fede, una scelta assoluta e rigorosa di Dio, della Sua Parola, della Sua Chiesa, interprete di quella Parola e tramite necessario perché essa diventi operante e salvifica, soprattutto attraverso i sacramenti.

Conseguente alla scelta religiosa è la scelta dei poveri, radicale fino ad arrivare a dire provocatoriamente che amava i poveri più del Papa e della chiesa e più anche di Dio, che non sta attento a certe <<sottigliezze>>.

La lotta di don Milani era contro la borghesia come classe, ma più ancora come mentalità, una mentalità da combattere in particolare per la tendenza a diffondersi anche fra i poveri. E’ un classismo ispirato al Vangelo e al Magnificat, nasce dallo schierarsi della parte dell’ultimo, dal condividere la condizione di inferiorità del suo popolo. La scelta di classe fatta da don Milani è guidata da un principio morale, assume su di sé la condizione di povertà e di miseria del suo popolo, prova dentro di sé il contrasto, l’ingiustizia delle sperequazioni tra il ricco e il povero. Lui borghese, rinuncia alla sua condizione sociale per farsi povero e mettersi dalla sua parte

Don Milani metterà in luce un’altra forma di povertà ancora più subdola e discriminante:<<la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e di funzione sociale>>. Quest’ultimo passaggio è di estrema importanza per comprendere la scelta chiara della scuola come strumento elettivo di pastorale e di riscatto dei poveri. La stessa passione di maestro nasce dalla sua vocazione religiosa e dal suo conseguente impegno di evangelizzazione. <<Fai conto che io qui mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti, che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver dato prima loro la parola? I missionari dei sordomuti non fanno così. Fanno scuola della parola per anni e poi dottrina poche ore…Lo stesso avviene quassù: con la scuola non li potrò far cristiani, ma lì potrò far uomini; a uomini potrò spiegare la dottrina>>(E.P.). Per questo la scuola gli era ancora sacra come un <<ottavo sacramento>> ed egli non si sentiva parroco nel far scuola.

Don Milani iniziò la sua <<scuola popolare>> a San Donato di Calenzano nell’ottobre 1949 e la scuola fu immediatamente il suo pensiero quando arrivò a Barbiana nel dicembre 1954. Le due esperienze differiscono notevolmente: luogo d’intensa conflittualità sociale San Donato, sostanziale omogeneità culturale e sociale Barbiana.

Nel passaggio dall’una all’altra si accentuò la tendenza all’anconfessionalità: <<Ragazzi io vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio soltanto per darvi l’istruzione e che vi dirò sempre la verità d’ogni cosa, sia che faccia comodo alla mia ditta sia che le faccia disonore>>.(E.P.).

Si accentuò anche l’impegno non tanto a dare una cultura, quanto a dare la parola ai poveri, a offrire strumenti per farsi una propria cultura. Si rafforzava anche l’impegno di attenzione al presente e ai problemi dei suoi allievi (il contratto di lavoro, l’obiezione di coscienza, e la bocciatura a scuola) per formare la loro coscienza.

<<I signori ai poveri – scriveva a Nadia Neri nel gennaio 1966 – possono dare una cosa sola: la lingua cioè il mezzo d’espressione. Lo sanno da sé i poveri cosa dovranno scrivere>>.

Maestro fu nel senso più classico e pregnante del termine, convinto come egli era dell’esemplarità della funzione del docente (non ci dovrebbe preoccupare <<di come bisogna fare la scuola, ma di come bisogna essere>> (E.P.).

Ha uno stile educativo né permissivo né autoritario, ma autorevole e democratico, realmente centrato sull’allievo, attento ai bisogni, ai problemi, agli interessi dell’allievo.

E’ orientato a forme di autoeducazione comunitaria per analizzare insieme la realtà e quindi intraprenderla e trasformarla. Le tecniche del mutuo insegnamento, della scrittura collettiva, dove tutti imparano quello che non sanno e insegnano quello che sanno.

Attraverso la scuola, don Milani faceva sperimentare quelli che chiamava <<gli istituti democratici>> e che di fatto si identificavano con le tecniche di lotta non violenta come lo sciopero, le manifestazioni di piazza, il ricorso all’opinione pubblica o alla magistratura, tutte iniziative che non si riducessero alla ricerca di vie d’uscita o atteggiamenti legalistici di formale e esteriore correttezza.

<<La scuola… è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso di legalità … dall’altro la volontà di leggi migliori, cioè il senso politico… E allora il maestro deve essere quanto più profeta, scrutare “i segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose più belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso>>.

Attraverso il contatto che nasce dal rapporto diretto con i giovani e della condivisione della loro situazione di inferiorità e di miseria, don Lorenzo riesce a far breccia nel cuore dei giovani e a far arrivare il suo messaggio.

E’ convinto che i risultati dell’istruzione religiosa siano esattamente legati all’istruzione civile. Questo perché ci si avvicini al messaggio cristiano in modo serio e adulto. La sua speranza era quella che i giovani di cui era maestro si accorgessero che le <<sue mani consacrate hanno il potere di cancellare tutta una brutta vita passata e indirizzare a un’altra diversa>> (E.P.).

Il suo insegnamento erano la coerenza: “Per insegnarci la coerenza voleva che si fosse scrupolosissimi anche negli atti più piccoli. Non è una cosa consueta. Si sente spesso dire, per esempio che la posizione personale non ha niente a che vedere con la posizione politica. E come no? Puoi essere davvero credibile quando ti riempi la bocca di bei discorsi sulla giustizia sociale, se poi guadagni un sacco di quattrini e vivi in una villa? E’ come se uno predicasse la non violenza e, in casa, bastonasse la moglie e i fiqlioli. E’ che la gente ama le ideologie e non gli uomini. Invece don Lorenzo non ci insegnava ad amare le ideologie, ci insegnava ad avere amore per l’uomo>> e il sapere: “Il priore ci propone un’ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo per esempio dedicarci da grandi all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato e simili. Per questo qui si rammentano spesso e ci si schiera sempre dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridionali italiani, operai, contadini, montanari. Ma il priore ci dice che non potremo fare nulla per il prossimo, in nessun campo, finchè non sapremo comunicare” (F.Gesualdi).

La coerenza di don Milani, la corrispondenza tra pensiero, parole e azione, praticata con rigore estremo, è stata una delle più evidenti qualità della vita e un motivo di insegnamento.

La sua preoccupazione era quella di dare un’educazione alla gente che la spingesse ad assumere a base della vita determinati principi in maniera coerente. Affermava che bisogna assumere a fondamento della nostra vita principi e valori molto alti. Queste cose le dimostrava soprattutto con l’esempio ovvero con la sua linearità tra pensiero, parola e vita. Era convinto che un elemento importantissimo del suo ministero fosse l’esempio, tanto è vero che in Esperienze Pastorali scrive:<<E poi è superbia credere nella potenza della propria parola: con le parole alla gente non gli si fa nulla. Sul piano divino ci vuole la Grazia e sul piano umano ci vuole l’esempio>>.

Don Milani è maestro perché assume fino in fondo la responsabilità di esserlo: si propone come modello e fonda la sua autorevolezza sulla credibilità stessa del suo modello. Fonda il suo rapporto educativo non sul potere, piuttosto in una reale compromissione anche affettiva con i ragazzi.

Rifiuta il potere del maestro ma ne mantiene l’autorità, un’autorità riconosciuta perché ha un fondamento morale e viene esercitata sul piano morale. In questo si realizzala globalità del rapporto educativo.

Per don Milani era molto forte la coscienza di essere modello per i suoi allievi, e questa responsabilità lo portava a creare sempre maggiore coerenza per sé con il suo credo. Il passato di cui il maestro è portatore deve solo servire ai ragazzi per nuove sintesi, per nuove costruzioni, dunque la sua azione non ha funzione conservativa, ma al contrario profetica e innovativa.